Memento audere semper

Annamaria Di Sibio

 

Introduzione

Ci sono dubbi che alimentano fecciosa retorica e subdola sociologia, avvizzita da una logorante insofferenza alla vita. Tutto ruota intorno a quell'animale sociale animato dall'oratoria del giusto saper vivere: tutto è proiezione al di là di sé stessi, del proprio io, della propria anonima identità. Perché la solitudine è tabù, è malessere sociale; è un lessema etimologicamente contraddittorio ed antitetico al paradigma strutturale dell'unico imperativo categorico socialmente auspicabile: la società. E in questo prontuario da lectio magistralis che ammonisce, giudica, condanna fino ad annichilire il senso dell'umana esistenza, la legge del disordine regna sovrana per ristabilire l'ordine naturale di un senso di appartenenza che è racchiuso nel proprio intimo malessere. L'insofferenza nasce e muore tra i ventricoli cerebrali dell'autoconsapevolezza; tra le cellule che respirano l'ansia delle contraddizioni; tra i polmoni che raccolgono nefandezze inalate attraverso la rabbia di un'impotenza che logora, fino ad uccidere. "O miseras hominum mentes, o pectora cæca!" ("Oh misere menti degli uomini, oh animi ciechi!"). Tutto ha origine dal dramma di un esistenzialismo che è ricerca di verità scomode, ingombranti, usuranti. Ci alimentiamo di apocalissi interiori, contagiandoci a vicenda per sedare, attraverso la condivisione della nostra infima ipocrisia, l'anonimato delle nostre inutili vite, pilotate dalla legge dell'omologazione. Non c'è "cogito ergo sum" che tenga di fronte alla consapevolezza della propria indifferenza. "Homines nihil agendo discunt male agere" 

("l’uomo, non facendo niente, impara a fare il male" - Catone).




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